domenica 27 maggio 2007

Brutti, sporchi e cattivi

Ve lo ricordate il film di Ettore Scola? Suppongo di sì, anche se ormai è vecchio di oltre un quarto di secolo.

Ma anche se ve ne siete dimenticati, o se non l'avete mai visto -ed è un peccato perchè è un bel film-, avete perso poco; perchè l'occasione di vederne -e di biasimarne- giorno per giorno, non ci manca di certo.

Soprattutto in tv ce ne fanno vedere, e spesso di colore, quasi sempre del sud.

Non ne vediamo certo che hanno studiato a Oxford e lavorano nella City, quelli no, sono biondissimi, e di certo hanno fatto la doccia al massimo da qualche ora.

Cos'è, populismo? Forse un po', forse è anche questo; ma è la realtà.

Sono proprio così quelli che ci fanno vedere, brutti sporchi e cattivi; e quando gli si toglie la terra, la libertà, quando gli si bombardano le case, sanno reagire solo rozzamente, da incivili quali certamente sono; perchè ha ragione anche la Fallaci, perlomeno un po' ne ha; diciamocelo: siamo meglio noi.

Noi che sappiamo reagire razionalmente, che sappiamo fare la guerra come si deve, coi missili e le bombe intelligenti, altro che intifada.

Certo ogni tanto ci scappa un missile su un'ambasciata, un paio di bombe su un deposito della Croce Rossa, ma è quel tanto di entropia -l'eccezione conferma la regola- che serve a giustificare la nostra superiorità.

Quegli altri no, al massimo si fanno esplodere in mezzo alla gente -missili non ne hanno-, muoiono sporcando, come hanno vissuto; un braccio qua, la testa che rotola, sangue spiaccicato sul muro.

Altro che i nostri proiettili all'uranio impoverito! Con le radiazioni ammazzano pure i microbi: è il massimo dell'igiene.

Come si fa a fare paragoni con le nostre guerre, coi nostri eroi? E' quasi offensivo, anche se non so bene in che senso.

E d'altronde un non violento come me, potrebbe mai giustificarli? Si può anche aver ragione, ma la violenza è violenza comunque; Gandhi liberò un continente digiunando, forse lui era meglio di tutti.

Però, se non ce la sentiamo di condividere la loro rabbia, forse possiamo condividere il loro dolore: da noi cercavano la civiltà, li abbiamo sempre presi a cannonate; così, tanto per gradire.

Forse possiamo condividere il loro dolore, se -per assurdo- cerchiamo di immaginare come saremmo potuti essere noi stessi senza denaro, senza cultura, senza sapone.

E allora si può comprendere tutto, l'insofferenza e perfino la rabbia cieca; non dico giustificare, ma condividere, condividere il loro dolore.

E chi sa condividere, non si fa buggerare dai telegiornali; è facile far passare per cattivo un disperato che strepita e ammazza; nessuno si chiede chi lo ha ridotto così.

Perchè è facile essere cattivi se si è brutti e sporchi; sarebbe strano scoprire la cattiveria in un bello e pulito, ma allora ci vuole cervello, e non è da tutti.

Quindi mi chiedo, per concludere, se sia nata prima la bruttezza, la sporcizia o la cattiveria. Perchè le tre cose forse non si possono mischiare: in sintesi, la cattiveria è l'ovvia conseguenza delle prime due, non viceversa. Ciò agli occhi del mondo.

E io che non voglio vedere con gli occhi del mondo, ma coi miei soli, non mi lascio impressionare: dietro la bruttezza e la sporcizia vedo più spesso rifiuto e disperazione, che non cattiveria.

Per questo mi sforzo -e qui la ragione deve farsi sentimento- di andare oltre il buon senso, di condividere il loro dolore.

Sagra del popone diaccio marmato (cfr. Feste e sagre, Sardelli, il Vernacoliere)

Quante ce n'è al mondo? E quanto sollecitano di serenità e buonumore, o di elevati sentimenti, o d'amor proprio o patriottico orgoglio! Ci sono le sagre dello spassoso Sardelli e ci sono le grandi ricorrenze nazionali, ci sono poi i tristi anniversari del ricordo dell'umana ferocia, e chi più ne ha più ne metta.

Ci sono feste importanti e sagre paesane; ogni anno c'è anche la festa del papà! Io che sono felicemente coniugato e con prole, tremo ogni anno al pensiero di dover ricevere auguri e affetto non per quel che sono, cioè me stesso, ma in quanto papà.

Insomma, per dirla in breve, complimenti al cazzo. A me però piace poco.

Perchè al di là di ogni fisiologia saremmo soprattutto individui, e invece ci autocelebriamo per quel che non siamo, per qualche accidente di particolarità che non ci riguarda, se non nella sfera animale, e non è certo l'essenziale di noi.

Quale potrebbe essere, allora, la festa dell'io? Forse, per assonanza, la romanissima "festa de noantri"? Neppure, perchè non si tratta di un "noantri" in quanto individui, ma solo in quanto romani, e per ciò stesso, disindividuati a favore di una collettività che deve, è vero, esistere e perciò celebrarsi, ma mai a discapito del vero soggetto della collettività, l'umano individuo.

Ogni popolo ed ogni età ha avuto le sue feste e i suoi riti. Millenni or sono se ne celebrava una molto particolare; era la festa del "Sol invictus", e ricorreva per il solstizio d'inverno; a causa della precessione degli equinozi cadeva pressappoco nella data in cui oggi celebriamo il Natale.

Si dice che fosse la festa che celebrava la rinascita delle forze primaverili; dal momento del solstizio d'inverno, infatti, il sole ricomincia ad allungare il suo corso, preparando con ciò la nuova fioritura e la bella stagione.

In realtà v'era un motivo più segreto e recondito; i sacerdoti dell'antico Egitto celebravano un'antica e segreta esperienza dell'individualità, proprio nel momento in cui il sole pareva ritirarsi nelle profondità della notte, o della notte dell'anno, cioè nel solstizio d'inverno.

Proprio allora sperimentavano il "sole di mezzanotte", in ciò contemplando mistericamente quel che millenni più tardi sarebbe apparso come potere d'individuazione dell'uomo: autocoscienza.

In sintesi era la festa dell'Io. E curiosamente corrisponderebbe alla nostra festa di Natale, se ancora avessimo contezza della sua origine.
Ma siamo troppo occupati a celebrare e rivestire di significati ogni inessenzialità, piuttosto che volgere l'attenzione a ciò che veramente ci rende uomini, e non maschi o femmine o chissà cos'altro: la possibilità di dire io a noi stessi.

L'età dell'oro

La visione panoramica dell'insieme delle vicende storiche, susseguentisi attraverso le varie età, puntualmente ci rimanda ad un'età favolosa, detta età dell'oro, di cui non si ha notizia, se non attraverso il mito e la leggenda, e che perciò puntualmente viene collocata in un remotissimo passato, o in un nebuloso avvenire, così lontani da segnare in certo qual modo i limiti, i confini della storia stessa, e che meglio di ogni altro mito rende l'eterna aspirazione dell'uomo al regno della perfetta felicità.

Condizione necessaria acciocchè l'età suddetta sia veramente l'età dell'oro, è dunque che non sia la nostra, quella in cui viviamo, che sia anzi il più possibile temporalmente lontana dagli angusti limiti di un'incarnazione umana, la nostra: Solo così l'età dell'oro può divenire rappresentativa della somma delle nostre aspirazioni.

Lontana, dunque desiderata; e se collocata (come ogni mito che si rispetti) addirittura ai confini del tempo, l'età dell'oro diviene per noi sinonimo di paradiso, perduto o agognato a seconda della sua collocazione temporale, ma in ogni caso posto nel punto all'infinito di quel sentiero che è il tempo, onde si faccia archetipo esteriore ed oggettivo di ciò che sostanzia l'interiorita' umana; il desiderio, che in sè segretamente sa di non poter conoscere appagamento nella successione temporale degli eventi.

Età dell'oro, ma soprattutto età di loro, di quelli che la vivranno o l'hanno vissuta, gli altri, che se fosse la nostra età non potrebbe essere l'età dell'oro; ci troveremmo smarriti di fronte alla possibilità che venga esaudito ed esaurito l'infinito desiderare dell'anima; e dunque si smorzerebbe in noi la scintilla stessa che ci tiene desti, il desiderio dell'oggetto, che non è mai veramente desiderio dell'oggetto, perchè appena che l'oggetto sia posseduto, il desiderio trapassa in qualcosa d'altro, un nuovo irraggiungibile oggetto che ci consenta di non sapere che in realtà non è quello l'oggetto che desideriamo, che in realtà non vogliamo sapere che cosa sia il desiderio, e perciò lo identifichiamo in ciò che riteniamo irraggiungibile, che se fosse raggiungibile, il giuoco del desiderio nell'anima diverrebbe palese, e questo noi non vogliamo, perchè lo temiamo.

Supponiamo dunque che possa esistere un malcapitato che abbia la ventura di trovarsi improvvisamente nel bel mezzo dell'età dell'oro: rapidamente esaurite le brame più pressanti, si troverebbe innanzi ad un vuoto in cui il desiderare, non trovando più alcun oggetto come motivo di brama, inizierebbe a richiudersi in sè stesso vorticando paurosamente, ed alla fine annientandosi nell'infinito vuoto del non desiderio, nell'esaurimento di ogni ingannevole apparire. Onde il malcapitato, svuotato di tutto l'ingannevole desiderare, si troverebbe di fronte allo specchio terso di una coscienza nella quale l'apparire del mondo dei sensi (leggi desiderare) è svelato.

Ed è per questo che l'età dell'oro viene collocata così lontano dalla nostra attuale; inconsciamente la rimandiamo sempre ai confini del tempo; come lo scolaro che non vuole fare i compiti, e rimanda l'evento che lo atterisce oltre l'infinità del pomeriggio, ma al tempo stesso lo agogna come il momento (bramato e temuto) della sua liberazione; liberazione che non può non passare attraverso un autoannientamento della memoria del passato, cioè di quel che crediamo essere il nostro io, e invece ci limita nella prigione del desiderio.

Così desideriamo l'età dell'oro, ma non subito; la collochiamo lontano, alla fine del tempo, in un luogo intemporale che non possiamo raggiungere, per non dover rinunciare a ciò che contingentemente siamo.

E invece l'età dell'oro scorre da sempre in una dimensione parallela alla nostra, ma non visibile, in un tempo che è sempre quello attuale, anzi è e non è mai; in quanto superamento della coscienza del desiderio, quindi superamento della visione del tempo come succedersi di eventi futuri verso cui proiettare una soddisfazione che invero non si potrà mai ottenere.

E continuiamo a sognare l'età dell'oro, come quel santo cristiano che pregava dicendo: Signore Iddio, liberami dal desiderio del peccato; ma per favore, non subito!

martedì 8 maggio 2007

Piove!

Difficile dire se piove, un istante prima che cominci a piovere; certo non quando splende il sole e ogni cellula del nostro corpo è immersa in questo calore dorato, abbagliante; allora no, non piove. Ma quando il cielo è nuvoloso, plumbeo, e l'umidità comincia a farsi sentire, quando crediamo, di tanto in tanto, di avvertire una gocciolina sulla fronte, e allora istintivamente stendiamo la mano quasi a volerci rassicurare che piova, perchè se almeno piovesse, avremmo una ragione per cercare un portone, un rifugio, per aprire l'ombrello; e invece no, la mano non si bagna, non piove; però potrebbe piovere.

E allora piove, o non piove? Pioverà, pioviggina, c'è aria di pioggia; ma non piove, o meglio, piove e non piove, e non sappiamo, in questo limbo meteorologico in cui nostro malgrado siamo capitati, dire che tempo fa, dove conviene affrettarsi, come barcamenarsi.

Si assiste, osservando la gente, agli spettacoli più curiosi, alle più inaudite prese di posizione: tra un attimo diluvia, dice qualcuno; non può assolutamente piovere, le nuvole sono rotte, risponde un altro; insomma, di fronte all'indefinito, all'evanescente, all'imprevedibile, la gente ha paura. E allora è pronta a giurare e spergiurare che qualcosa certamente accadrà, non importa se la grande siccità o il diluvio universale, basta che si esca da questo limbo dell'incertezza, dell'ambiguità, che ci si possa liberare dall'incubo, dall'ossessione del piove e non piove.

E invece io passeggio tra la folla che si affretta, che si affanna, che disputa; ripetendomi mentalmente: piove e non piove; gustando intimamente questi meravigliosi momenti di transizione che precedono l'evento, qualunque forma esso possa assumere. Insomma non il fatto, ma il farsi, non l'evento ma la sua causa, non la nota musicale ma il silenzio che la precede, che le è preludio. Piove e non piove: di fronte a questo pensiero vacilla l'universo di nitide certezze che l'uomo moderno, incivile e brutale nella sua scienza, si è costruito. Piove e non piove: e mentre dalla notte del divenire scaturisce l'evento, mentre le prime gocce di pioggia disperdono la folla chiassosa, so che la pioggia, solo io l'ho sentita arrivare, perche' ho potuto coglierla nel suo farsi, quando ancora poteva non essere, quando ancora poteva splendere il sole.

E adesso che piove, tutti sono felici e bagnati, perchè il futuro è diventato presente, e il presente è l'ineluttabile, ciò a cui non ci si può opporre; è un fatto, e il fatto lo si accetta com'è; può essere doloroso, ma non può fare paura. Mentre il futuro, il futuro è imprevedibile, è la libertà dell'uomo, e la libertà genera ansia e terrore se non si ha il coraggio di accoglierla, se non si ha il coraggio di figgere lo sguardo interiore sulla tenebra del divenire dell'uomo.

lunedì 7 maggio 2007

Muoia Sansone e tutti i filistei!

In fondo questi disgraziati non hanno inventato proprio nulla. La tecnica -se ci pensate- è nota fin dall'Antico Testamento.

Povero Sansone, accecato e ridotto in catene: cos'altro avrebbe potuto fare con l'ultimo palpito di forza?

Così fece crollare le colonne della casa dei filistei, e -ci racconta il libro dei Giudici- "Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti ne aveva uccisi in vita".

E questo ci induce a considerare che ognuno -oggettivo o no che sia, ma ciò non è sindacabile- ha una misura precisa, oltre la quale la sua vita vale meno del danno che può causare a chi lo riduce in schiavitù.

E questa misura -oggettivo o no che sia, ma non ci è di alcuna utilità stabilirlo- non dev'essere superata da nessuno che ci stia nei paraggi. E non tanto per falso e recitato altruismo! anche solo per lucido, freddo e cosciente egoismo, dovremmo poter considerare che la disperazione non è di questo o di quello, la disperazione è gassosa: si espande come la puzza e non ce ne liberiamo più.

E' un'illusione il pensiero che si possa star bene, quando altri attorno a noi soffrono. Possiamo chiuderci a riccio per non sentire la loro sofferenza, certo: finchè non ci esploderà in faccia.

Chi biasimerebbe l'ebreo Sansone, se la sua storia fa parte del libro dei libri? Chi biasimerebbe la Bibbia? Eppure oggi siamo scossi da tutt'altri sentimenti; ma consideriamo che ogni popolo ha i suoi Sansoni, e -per Dio!- sarebbe meglio se non ve ne fossero.

Il villaggio globale di questo nuovo millennio non tollera ostracismi e avversità tra culture. Nel medioevo ci si poteva isolare tra le montagne; oggi non v'è montagna che regga alla tracotanza mediatica delle nostre parabole.

Difficile mettersi nei panni dell'altro, la storia ci insegna che è quasi sempre stato impossibile.

Ma quella stessa storia oggi ce lo richiede, perchè il mondo s'è fatto piccino e -gomito a gomito- ci tocca di stare tutti un po' stretti. In questi casi la puzza si sente di più.